UN’UNICA QUERCIA
Testo a cura di Arnold Braho
Giardino Villa Cappuccini è un luogo atipico: una frazione di territorio che grazie alla sua conformazione risulta come un terreno fiabesco, uno spazio dove il tempo non ha avuto nessuna intenzione di fermarsi, e dove piuttosto è la storia che sembra averlo aggirato. Un bosco circoscritto all’interno di mura alte quasi tre metri si è negli anni espanso, autogestendosi all’interno di quattro confini come un vero e proprio organismo, e rimodulandosi senza soluzione di continuità per un periodo di tempo difficilmente delineabile. All’interno di questo lasso temporale è nato negli ultimi due anni il progetto di restauro dell’area boschiva di Villa Cappuccini, processo che ha inserito tra le tante possibili forme di vita per questo luogo la mostra Unico di Jacopo Naccarato. Se una vita non può essere separata dalla sua forma, e ogni comportamento non è mai prescritto da una specifica attitudine biologica — secondo il pensiero Agambeniano, ciò che è in gioco nelle modalità del suo vivere, è il vivere stesso. Figurare allora l’esistenza estendendo questa formulazione all’ecosistema, e non limitandosi alla sua forma umana, permette di concepire i singoli modi, atti e processi del vivere non semplicemente come fatti del mondo, ma sempre e soprattutto come delle possibilità1. Il processo artistico di Jacopo Naccarato sembra inserirsi all’interno di questa modalità di pensiero, fondando la propria ricerca sulla moltitudine insita all’interno delle soggettività e la frammentarietà della dimensione identitaria, mai fissa, mai statica, mai irremovibile. Unico (2023) di Naccarato, che da anche il nome alla mostra, è un’opera scultorea realizzata a partire dal recupero di una quercia rimossa durante il processo di restauro del Giardino, successivamente rielaborata dall’artista co-direzionando l’intaglio attraverso i suggerimenti o le costrizioni date dalla pianta. Una collaborazione con le venature dell’elemento vegetale. Unico è una figura antropomorfa senza braccia e dallo sguardo lontano, ridipinta con polvere di grafite capace di ingannare i nostri occhi, facendola apparire come legno bruciato, e quindi stabile e resistente. Il volto, grazie alla polvere mineraria, ha la capacità di risplendere se osservato alla luce del sole, in alcuni momenti del giorno: una maschera che dota di un certo animismo la struttura arborea. L’itinerario della quercia ha avuto spontaneamente inizio all’interno del bosco, per poi assumere le sembianze di una figura umana, e infine essere ricollocata nel suo luogo d’origine. L’operazione dell’artista mette così in luce la possibilità di una sociologia del rurale attraverso cui ripensare gli organismi naturali, non limitandosi ad una singola quercia, ma ripensando le potenziali storie di un intero bosco. Un Unico albero, che seppur inizialmente predisposto al crollo, diventa la possibilità di un tempo a venire.
1 – Giorgio Agamben, Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino, 1996;